Io proteggo
La limo accosta al marciapiede mentre sto finendo di pulire le lenti degli occhiali.
Li inforco e controllo che la fondina sia ben salda sotto l’ascella. Un’ultima sistemata al nodo della cravatta e il vetro fumè tra i posti davanti e quelli dietro si abbassa con un sibilo che sembra un soffio.
Non mi giro, non mi giro mai. “Siamo pronti?” mi dice col tono più da checca di cui è capace. Annuisco con un cenno di testa e prima di scendere dall’auto saluto l’autista. Mi sembra si chiami Norman. O Theo.
Sceso dalla limo mi guardo attorno, dai piedi all’orizzonte vicino, le due ali di folla sono arginate da transenne ornate a festa. Le ragazzine in prima fila urlano, si dimenano e parte l’orgia di flash che ancora non ho aperto la portiera posteriore. Apro e i flash si fanno tsunami, lui esce dalla limo che ancora si sta ripulendo il naso dall’ultima tirata e saluta la massa. Urla, urlano.
La passerella rubina è una lingua invitante, voluttuosa. I primi metri sono sempre i più semplici, poi si spingono di più sporgendosi dalle transenne e cominciano gli strattoni, le urla si fanno più stridule. Giungla di ragazzine, liane di braccia incontrollate.
Lui tira fuori la lingua e la faccia diventa una smorfia continua, i flash gli si riflettono sugli occhiali a specchio, non si cura dei taccuini e delle penne per gli autografi, indica tutti e ringrazia. Forse spezzo un dito a uno che gli tira la camicia da ottomila dollari e saliamo i gradini dell’ingresso del Double.
“Cazzone, sei un grandissimo cazzone! Un altro po’ e quello stronzo mi strappa la manica! Ma che ti pago a fare?!” continua a blaterare non curandosi del comitato d’accoglienza fatto dell’intero direttivo del Double, dal direttore fin giù. Guadagna il corridoio che porta al bagno e lo seguo. Dall’oblò lo vedo chinarsi sul lavandino a pippare un’altra tirata dallo specchietto e mi giro a mani conserte davanti alla porta.
Quando esce mi dice solo “grassone di merda” e poi entra nella grande sala stringendo mani, indicando chiunque, accolto da un applauso per i due pezzi in playback che canterà stasera e che dedicherà ad assessori e sindaco, un senatore, industriali, lobbysti senza nome, generici ricchi e donne agghindate come alberi di Natale.
Io mi avvicino al chilometrico tavolo del buffet e incrocio lo sguardo affamato di Taylor. Lui è nello staff che protegge il sindaco e abbiamo giocato insieme una stagione a Tampa. La mia ultima stagione da professionista, prima che un placcaggio di quelli che non dimentichi mi spappolasse il ginocchio sinistro. “Come va, Duncan?” mi chiede affiancandosi a me e addentando un sandwich senza distogliere lo sguardo dal tavolo del sindaco.
Io ingollo d’un fiato un cocktail rosso con riflessi blu e rispondo con uno sbuffo, poi dico al cameriere di mettermi dei sandwich in un piattino. I camerieri in livrea pedalano come forsennati fra i tavoli, li riempiono di vassoi stracolmi di tanta di quella roba che ci sfamerebbero l’intero Darfour e il mio sguardo si muove a trecentosessanta.
Lui è al suo tavolo, attorniato di figlie di politici sgallettate. Firma tette e posa per qualche foto e immagino che a breve le sue narici reclameranno un altro paio di piste, anche perché altrettanto a breve il piccolo palco davanti ai tavoli sarà tutto per lui e si darà da fare per giustificare i cinquantamila dollari che il suo agente domani andrà a incassare nell’ufficio del sindaco.
Non smetto di chiedermi da cosa dovrei proteggerlo, ma poi penso al ginocchio, al mutuo della casa e la domanda mi sembra più cretina del solito.
Il direttore del Double sale sul palco e al microfono richiama l’attenzione degli invitati. La star della serata accompagnerà tutti fino alla mezzanotte con qualche pezzo tratto dal suo ultimo cd. L’applauso e il tintinnio di posate sui bicchieri di uomini e donne di mezza età - che manco conoscono la star - sono talmente grotteschi che i gridolini delle ragazzine sgallettate assumono una loro grazia.
Mi riavvicino al tavolo del buffet, prendo il piattino preparatomi dal cameriere e lascio la sala mentre lui sale suo palco e farfuglia un ringraziamento.
Prendo l’ascensore fino all’ultimo piano, poi le scale per uscire sul tetto e sugli ultimi gradini le fitte al ginocchio si fanno più calde. Esco e il vento tira che sembra una sferzata di sabbia. Le luci di New York si vedranno fin su Marte, ma i suoni sono solo roba per le strade cinquanta piani più in basso. Fatico ad accendere una sigaretta e tiro solo due boccate, tanto per stuzzicare i polmoni, poi cerco un punto in cui sedermi.
Mangio il mio sandwich mentre i fuochi d’artificio inondano il cielo annunciando il nuovo anno e sparo alla luna vomitandole addosso l’intero caricatore della glock.
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