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(soc)chiuso per Lucca

Domani parto per Lucca.
Per la prima volta farò tutti e quattro i giorni di fiera, quindi spero di riuscire a incontrare tutte le persone che vorrei (ri)vedere.
Sarò prevalentemente in giro, ma farò capo spesso allo stand degli amici della Double Shot (almeno finchè non si rompono le palle e mi cacciano).
Per chi non sarà a Lucca, spero che questo possa essere un buon palliativo.
Altrimenti mi permetto di suggerire qualche soluzione alternativa come guardare questo (appena uscito a noleggio), leggere questo (sì, lo so che è uscito da anni), questo (appena uscito in economica) o ascoltare questo (e sì, so che anche questo è uscito da un bel po').
Ci si ribecca da lunedì prossimo.
un buon motivo per aggiornare il blog
La salivazione è così alta che rischio di annegare...
The expendables: Sylvester Stallone, Jason Statham, Jet Li, Mickey Rourke, Dolph Lundgren, Eric Roberts e con camei anche di Bruce Willis, Arnold Schwarzenegger e Danny Trejo.
Non c'è veramente nient'altro da aggiungere.
varie ed eventuali, con poco tempo a disposizione

Mi piace Kevin Macdonald. Mi è piaciuto L'ultimo re di Scozia, m'è piaciuto il documentario Il nemico del mio nemico e m'è piaciuto molto anche questo State of play.
Macdonald non ha paura di affrontare l'intuibile perchè si fa forte di una sceneggiatura che garantisce la giusta suspense e delle buone sorprese, non ha paura ad avere nel cast la faccia da triglia lessa di Ben Affleck perchè sa che può contare sui rotoli di ciccia e la buona lena di Russell Crowe. Non dipende da lui, ma vedere oggi, in Italia, un film del genere, non può non strappare qualche risata o scatenare qualche fiotto di bile.

Leggo Pulp libri #81 e la recensione su Il gusto del cloro mi rimane impressa per due passi in particolare:
- "(...) Leggendolo, però, ho ripensato alla pulizia dei disegni di Moebius - alla sensazione di semplicità che mi hanno trasmesso le prime volte in cui li ho avuti tra le mani - a quell'impressione quasi di ovvietà che è il risultato di un estremo lavoro di sottrazione e di sintesi e che risponde a un bisogno di chiarezza che ha a che fare con la concentrazione o, volendo, con il misticismo."
La pulizia dei disegni di Moebius. Bastien Vivès. Come dire: sono entrambi francesi, avranno per forza qualche punto di contatto.
- "Con Il gusto del cloro Bastien Vivès ha vinto numeriosi premi; ora in Francia le sue pubblicazioni si susseguono, e devo dire che le aspetto con curiosità .".
Finalmente qualcuno che dice ciò che c'è da dire e che non si tiene nulla.
La recensione è firmata da Caterina Grimaldi.

Pubblicato in Italia da Free Books in coda al volume Tag, questo 10 di Keith Giffen e Andy Kuhn è un giochetto di poche pretese che strappa qualche sorriso e diverte per un congruo numero di pagine. Una in più e sarebbe scattata la fase orchitica. Bei disegni.
varie ed eventuali
Ieri sono stato per la prima volta a un concerto di Ivano Fossati, autore che conosco pochissimo e che per quel pochissimo ho sempre però apprezzato molto.
Dopo ieri si è reso necessario e imprescindibile recuperare l'intera discografia quanto prima.
Accompagnato da dei musicisti di grande bravura - fra i quali ha spiccato per classe e inimmaginabili doti ginniche il bassista a molla Max Gelsi - Fossati ha naturalmente eseguito dei pezzi dall'ultimo album, Musica moderna, ma ha anche ripercorso parte del repertorio più vecchio, andando a ripescare l'attualissima La crisi (del '79...) e proponendo un pezzo rieseguito dal vivo solo di recente, Di tanto amore.
Non conoscevo Discanto (il video lassù) ed è il pezzo che mi è piaciuto di più: non so se ce le ho volute vedere solo io, ma è così denso di immagini noir e metropolitane che potrebbe fare tranquillamente da tema portante per un fumetto o un film. Se invece arrivo buono ultimo ad accorgermene, compatitemi.

Ho anche finito di vedere l'ultima stagione, la settima, di 24, insieme a I Soprano e The Shield la mia serie preferita di sempre.
Da qui in avanti considerate il rischio concreto di calpestare qualche spoiler, quindi procedete a vostro rischio e pericolo e non venite poi a pulirvi sul mio zerbino.
Si sarebbe dovuto trattare dell'ultimo appuntamento con Jack Bauer & c. e invece lo ritroveremo anche in un prossimo Day 8.
Peccato, perchè è apparso chiaro fin dall'inizio, in questa settima stagione, il tentativo degli autori di dare coerenza a macro e micro subplot della trama orizzontale di 24 e di farli convergere in un unico e risolutivo snodo, senza con questo rinunciare alla consueta eruzione di colpi di scena: il ritorno di Tony Almeyda (anche se l'avrei potuto intuire) e di altri ottimi personaggi dei precedenti cast (tutti tranne quell'insopportabile stronza della figlia), l'avvicinamento di Jack a Washington grazie al cambio di location e l'apertura procedural della stagione (con Jack sul banco degli imputati, vero leit motiv metaforico di tutti gli episodi: che sia giusto o meno il suo continuo ricorrere alla tortura in funzione del bene superiore, il vero problema è quello di fare delle scelte con cui si è in grado di convivere).
Anzi, proprio in funzione del calibro di botti sparati a sorpresa, scommetterei un dito sul fatto che il finale di questa settima stagione sarebbe dovuto coincidere con la morte di Jack, ma la ri-impennata degli indici d'ascolto deve aver convinto la produzione delle potenzialità di un'ennesima stagione.
update

Dimenticavo. Ho pure visto Transformers - Revenge of the fallen.
Il primo era stato una bellissima sorpresa, il secondo una mezza rovina confusa, involuta, insulsa.
Michael Bay apre il gas, ma finisce subito la benzina : due ore e mezza di film lungo e noioso che manco Ben Hur.
Tutta l'ultima parte nel deserto è girata alla grande, ma l'ora e mezza precedente è propellente puro per sbadigli a raffiche fotoniche.
In effetti, messa così, la metafora della benzina stenta, ma è anche vero che stiamo parlando di Transformers 2, quindi va più che bene.
stoico

E' vero, Darietto Argento ormai ha svaccato irrimediabilmente e da eoni non infila un film decente manco per sbaglio, ma è l'unico regista al quale perdono ogni abominio (cazzarola, se sono tornato a vedere ogni suo film anche dopo quell'ignobile vaccata de Il cartaio ci sarà un motivo...), quindi - come ogni stramaledetta volta - quando so che sta lavorando a un altro film o che il nuovo film è pronto a uscire, vado comunque in fregola come una liceale prima del ballo di fine anno scolastico.
Ah, sì: la locandina è un plagio della cover di Gomorra.
Danny Trejo e l'arte della ruga

E poi, soprattutto, c'è lui! Finalmente un ruolo da protagonista per una delle facce più rugose, sporche, cazzute, cattive, silenziose, tese, pese, messicane, torve, polverose, sbozzate, ringhianti di Cinelandia tutta.

Danny Trejo non avrà le sottigliezze e sfumature espressive tutte a togliere di attori di prima grandezza, ma ha uno sguardo che è una sentenza e dosi di carisma oltre il quantificabile.
Non mi piace ricorrere a volti cinematografici nel definire fisicamente un personaggio a fumetti, ma per Trejo e pochissimi altri la tentazione è sempre fortissima, ai limiti dell'irresistibile.
Dopo Machete temo che cedere sarà l'unica opzione possibile (ma anche no).
mistone di celluloide in dvd

Secondo film di Muccino negli USA, secondo film con Will Smith protagonista (e co-produttore).
Se La ricerca della felicità m'era sembrato incoraggiante e intravvedevo proprio a Hollywood una dimensione più consona per l'approccio di Gabriele Muccino al cinema, con questo Sette anime cade tutto e cade col tonfo: miele a catinelle, buonismo d'accatto della peggior specie (quello che origina nel e dal senso di colpa), regia un poco sciatta (qualcuno la chiama sensibilità europea, io in certi momenti avrei mandato avanti veloce per arrivare al punto), alcune location da spot di bassa lega (il prato con l'erba al vento... manco Mulino Bianco) e interpretazioni fin troppo in parte (...).
E tanta tanta tanta noia.

Sbirri: un giornalista romano, dopo la morte per droga del figlio adolescente cerca di capire i retroscena dello spaccio di droga e si trasferisce a Milano per un'inchiesta che svolgerà affiancando un corpo speciale della Polizia che si muove in borghese nelle strade notturne (e non) del capoluogo lombardo.
Uno pensa al regista e dice: vieni dai documentari, quindi apporterai la tua esperienza in termini di sintesi, efficacia narrativa, precisione d'intenti e di obiettivi.
E in parte è vero, perchè finchè Roberto Burchielli racconta la strada, le relazioni fra giornalista e sbirri tutto più o meno sta in piedi (la parte più "docu"), quando però si allarga alle relazioni personali (alla parte più "drama" o "fiction"), soprattutto a quella fra il protagonista e la moglie incinta, la cosa si fa davvero mesta e funerea.
E non per la morte del figlio dei due, ma per lo sfacelo di luoghi comuni, interpretazioni urlate in camera (Bova col crocifisso in bocca è duro da mandar giù), movimenti di camera da colpo apoplettico e regia porno-voyeuristica buona per qualche programma di Rai 2.

Ecco, questo m'ha sorpreso. Lo riconosco, soprattutto per le basse aspettative che avevo, ma penso che anche a una seconda visione il buono che c'ho intravvisto potrebbe reggere.
Non ho francamente capito il titolo (.45... calibro di che?), ma poco importa. Gary Lennon prova a raccontare la violenza dentro le mura domestiche e il cammino di rivalsa e vendetta della vittima (una bravissima Milla Jovovich) in maniera non convenzionale pur rimanendo nell'alveo del genere crime, con un convincente (e rischioso) indugiare negli interni e pur inciampando in una brutta cazzata nella messa in scena dell'ultima sequenza (punta su un effetto sorpresa del tutto immotivato, date le premesse e la costruzione dei momenti precedenti dell'intreccio).

Sarò pazzo, ma a me Alejandro Gonzalez Inarritu piace e mi piace pure un sacco. Intanto, ha un nome fighissimo e poi perchè scrive bene e dirige meglio, prendendosi dei rischi enormi in termini di testo, sottotesto e regia.
L'avevo scoperto con 21 grammi e riapprezzato con Babel, ma non avevo ancora visto questo Amores perros, il suo primo film, che già fa vedere tutta l'abilità di Inarritu nel tenere il controllo del racconto, nel far emergere tutte le voci del coro di personaggi con i giusti tempi e i giusti modi, nel lasciar crescere un sottotesto che ti rimane addosso per tanto tempo: non solo il peggio di un Messico lontanissimo dall'immagine festosa da cartolina, ma il peggio di una condizione umana (essere umano come animale, come miglior amico del cane) sull'orlo della perdita della speranza e con davanti solo la rassegnazione più frustrata e desolata.
Terminator Salvation

Se state leggendo queste parole, fate parte della resistenza.
La resistenza di chi può ancora fare in tempo a non vedersi corrompere cervello e cuore da questo minestrone di cazzate, da questa fiera del buco di sceneggiatura.
E dire che la cosa parte bene: bellissima fotografia desaturata, bella ambientazione, regia solida anche nei momenti più convulsi, montaggio di pari livello, Christian Bale perfetto per il ruolo e con effetti speciali più che validi.
Poi entra in scena il terminator dal cuore umano e cominciano i dolori.
Un crollo verticale di quasi un'ora e mezza che si porta giù tutto e - nel peggior effetto entropico - tutto riprende contemporaneamente forma in un ensemble di scene dissennate, rabberciate con goffaggine per un pubblico inebetito o - nella migliore delle ipotesi - distratto/distraibile.
Sarebbe divertente fare l'elenco di tutte le contraddizioni, incongruenze e voragini di sceneggiatura, ma c'è già chi lo ha fatto meglio di me (qui, ad esempio) e non voglio sprecare più bytes e tempo del dovuto.
Con tanti saluti ai primi due bellissimi capitoli della saga.
Il terzo, nel mio continuum spazio temporale non è mai stato concepito e quest'ultimo va a fargli immediatamente compagnia fra le esperienze da rimuovere.
Ellapeppa che Appaloosa

Perso purtroppo al cinema, recuperato a noleggio in dvd e prontamente ordinato per poterlo avere.
Sì, perchè Appaloosa è davvero un bel film.
Ed Harris coscrive, coproduce, dirige e interpreta un robusto, onesto e secco western che si muove negli argini della tradizione, salvo farlo con movimenti sghembi e a tratti imprevedibili.
Laddove normalmente la sottotrama d'ammmore cercherebbe di rincicciare il plot principale per veri maschi, qua - invece - Harris riesce a mettere in negativo le consuete proporzioni e lascia quasi sullo sfondo il confronto con la nemesi (un ingessato ma sempre da plauso Jeremy Irons), preferendo concentrarsi sulle dinamiche della figura geometrica più elementare, il triangolo (che a tratti diventa pure quadrilatero e pentagono).
Il suo personaggio, che sa cosa vuole ma a volte non trova le parole per dirlo, si completa in quello di Viggo Mortensen (che ha un tasso di figosità quasi ai livelli di Eastern promises), collega pistolero dotato di un vocabolario più ricco, di sentimenti e di un 8 mm da spavento.
A scombinare i piani interviene la pulzella da capobranco, Renée Zellweger, che mette alla prova la solidità del rapporto fra i due maschi, fino a far emergere le distanze fra i due: da una parte la necessità della stanzialità e - dall'altra - la propensione alla ricerca di una nuova frontiera.
In mezzo, fino a quel momento, tempi lenti e avvolgenti, polvere, silenzi e parole giuste (senza paura di sbagliare nel trovarle) così come il numero di pallottole (una delle quali texianamente destinata ad un cavallo e non all'uomo che lo cavalca e che costituirà il giusto investimento che permetterà ai tre di uscire da una brutta situazione), le nagnifiche ruge di Lance Henricksen e una voce off che arriva solo quando deve arrivare.
due modi per cominciare bene la giornata
Primo modo - conoscere per caso un bellissimo blog come Movies in frames: non servono parole per descriverlo, è tutto nel titolo e nell'immagine esemplificativa qua sopra.
Secondo modo - trovare nelle parole di un gigante quelle che non saresti in grado nemmeno di pensare:
"Perché scrivo? Per paura. Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me. O anche solo per essere protetto da una storia, per scivolare in una storia e non essere più riconoscibile, controllabile, ricattabile."
Fabrizio De André
Talk Radio

Retorico, frontale, trombone, moralista, antipatico, (in)elegante, polemico, logorroico, manicheo, tronfio, fazioso, esagerato, muscolare.
Il cinema di Oliver Stone è così, senza compromessi, senza sfumature e negli anni ha pure perso di smalto (nel mio continuum spazio-temporale, ad esempio, non sono mai stati girati Alexander e World Trade Center), ma continua ad essere un dispensatore di storie che non passano inosservate, che non avranno la persistenza di una carezza e rimangono addosso spesso come il segno di un ceffone, ma che non se ne vanno.
Talk Radio è uno di questi film (ai quali aggiungerei quasi tutti quelli fra Salvador e Ogni maledetta domenica) e nella mia personale esperienza di spettatore, poi, continua a posizionarsi molto in alto in quella magmatica e ideale classifica dei film da portarsi su un'isola deserta (deserta-deserta, senza gli stronzi di Lost).
In teoria dovrebbe essere il film più minimalista di Stone, ambientato com'è quasi completamente negli studi di un'emittente radiofonica, ma anche in questo caso il buon Oliver riesce a volte a muoversi con la grazia di un elefante in una cristalleria, riuscendo però a tenere la storia e a compensare con molte raffinatezze registiche tra riflessi nei vetri e movimenti di camera.
Lascia completamente a briglia sciolta Eric Bogosian, che consegna alla storia del cinema un'interpretazione maiuscola e che tratteggia magnificamente il personaggio (realmente esistito) di Barry Champlain, conduttore radiofonico di Dallas che dai microfoni della KGAB lancia i propri strali verso i propri concittadini e l'america tutta.
Champlain parla, insulta, apostrofa, sbeffeggia, critica, distorce, mente, strumentalizza e arriva a un lucido delirio finale dinanzi al cuore nero dell'America (e al proprio), spremendolo fino in fondo ("aveva un uccello piccolo, ma si divertiva a vedere se rimaneva dritto contro vento") affrontando temi come il razzismo, l'aids, la droga, l'omosessualità , l'ebraismo, il nazismo, l'handicap, la depressione, la libertà di pensiero.
La straordinaria invettiva-monologo del pre-finale continua a mantenere intatta ancora oggi, dopo vent'anni, una carica dirompente inarrestabile e straordinariamente densa.
X-Men le origini: Wolverine

Ho pensato un po' di volte da che parte prendere il commento a questo film, ma mica l'ho trovata.
Tutt'altro.
L'unica cosa che persiste è la sensazione di aver visto 'na cazzatona di quelle trucide.
E va pure bene, ci mancherebbe: non si può vivere di sola attesa per Terminator: salvation e in qualche modo bisogna pur compensare.
E' che son perplesso e il neurone mi si sbatacchia fra i rivoli di un interrogativo: un buon attore che fa il gigione e digrigna i denti, un buon regista che lavora più di post-produzione che sul set, un buono sceneggiatore che scrive di schiena e bendato, possono fare una buona cazzatona o possono riuscire a farne una mastodontica?
Ecco, più o meno è questa la perplessità con cui sto combattendo, senza complicarmi la vita andando a parlare di doppiaggio (il doppiaggio! oddio! ahahahaahahahah) o di tradimento/fedeltà filologica della/alla fonte originaria (che sarebbe assolutamente il meno).
letture e visioni

Confermo tutto ciò che ho detto all'uscita del primo volume di questa serie e rilancio (e nel rilancio è compreso pure ciò che penso del secondo arco narrativo) ora che ho letto il terzo paperback di Criminal: Brubaker e Phillips stanno componendo uno straordinario e coerentissimo mosaico nero come non ne leggevo da eoni.
Siamo dinanzi allo stato grezzo del noir, alla sua forma primigenia e incontaminata, ma considerando che parliamo di un fumetto uscito nel terzo millennio e che è stato preceduto da quintali di cellulosa e chilometri di celluloide appartenenti allo stesso genere e che hanno contribuito a (ri)definirne la sintassi, dovremmo avere ben chiara la dimensione di questo capolavoro.

Ho sempre apprezzato il lavoro di Barry Levinson, regista di non eccelso spessore ma che ha l'indubbia qualità di riuscire a condurre in porto una storia con convinzione, sguardo personale e gran capacità di far convivere attori e personaggi di non facile gestione.
Certo, qualche stronzata è riuscita a farla pure lui (chi ha detto Sfera?), ma titoli come Good morning Vietnam, l'ovvio Rain man, Sleepers e i sottovalutati Bandits e L'uomo dell'anno non possono essere vantati da tanti cineasti nella propria filmografia e a questi si va ad aggiungere Disastro a Hollywood, ottimo esempio di come anche l'esausto tema del cinema nel/sul cinema possa essere riattualizzato quando si ha qualcosa da dire e qualcuno con cui dirlo: De Niro senza smorfie paracule, un sempre meraviglioso Turturro e dei complici e divertiti Penn e Willis.
visioni pasquali

Tony Gilroy mi è stato sempre simpatico per via del trittico di sceneggiature per la saga di Bourne, mi ha estremamente incuriosito con quel bel thriller/noir un po' sbilenco, ma cazzuto di Michael Clayton e con questo Duplicity mi convince ulteriormente.
Prende due divi (Owen e la Roberts) e li infila in un gioco al rialzo di sorprese e doppi giochi, il tutto tenuto insieme da un tono da commedia sofisticata piuttosto divertente.
Ma se l'argomento è lo spionaggio industriale fra colossi della cosmesi, il tema è: cos'è che lega una coppia? Quanto peso ha la fiducia e quanto la perfetta comprensione dell'altro?

Underbelly è invece una serie televisiva australiana molto bella (finora, però, ho visto solo i primi tre episodi) che racconta le vicende realmente accadute di una famiglia di criminali di Melbourne. Un po' I Soprano e un po' Romanzo criminale - giusto per sprecare qualche sciocchissima ed inutile etichetta senza senso - Underbelly (qua e qui altre info) ha un'ottima partenza per scrittura, regia e recitazione e regala fin dalla prima puntata un personaggio, il principe nero Alphonse Gangitano, straordinariamente interpretato dal bravissimo Vince Colosimo (vedi foto su).
The Wrestler

Piccolo, gigantesco film.
Piccolo nella regia, piccolo nella confezione, piccolo nell'intreccio. Ma gigantesco nella potenza dirompente del senso e dell'interpretazione di Rourke, qui in uno dei suoi ruoli migliori.
Aronofsky si tiene un passo indietro (anche visivamente, fisicamente: tante, tantissime le riprese che seguono di spalle il goffo e stanco deambulare di Rourke) e lascia spazio al crollo sacrificale di un cristo che ha fallito in ogni aspetto della propria vita, tranne che lì dove non può farsi male, fra le braccia al cielo e le voci urlanti di una famiglia tribale.
E nel sacrificio si compie il suo dono più alto, il suo darsi senza chiedere nient'altro che un grido d'approvazione, d'ovazione.
Un film crudo, duro, ma che sprigiona una forza emotiva impressionante e che - come ogni opera dotata di uno sguardo, non si esaurisce qui.
Fra le pieghe del racconto emergono altri spunti e la pellicola di Aronofsky si apre ad altre interpretazioni: ultimo chiodo sulla bara degli '80 (salutati attraverso le note dei Guns) e amara riflessione sul fallimento dell'imperialismo americano.
Gran Clint

E' con un certo imbarazzo che costringo queste considerazioni a convivere nello stesso blog con quelle sul Watchmen di Snyder.
Per rispetto avrei dovuto aspettare qualche tempo e mettere prima in quarantena queste pagine, ma l'urgenza è una brutta scimmia.
L'America dello zio Clint non è quella sognata da Obama, è ancora un'America fortemente radicata nelle sue contraddizioni e storture, non è (più, se lo è mai stato) il Paese dei sogni, ma continua a essere una polveriera pronta ad esplodere, disinnescabile solo grazie alla ruvida esperienza e al senso del sacrificio di uomini consapevoli della propria individualità , ma pronti a superare il confine della chiusura preconcetta nei confronti dell'altro.
Un anti-pamphlet del conservatorismo illuminato dell'unico uomo di destra che mi piacerebbe essere, ma è anche una nuova riflessione di Eastwood sulla perdita dell'innocenza e sul rapporto tra figura paterna e destinatari della sua eredità , che ha già avuto altissimi momenti lungo l'intera filmografia eastwoodiana da Un mondo perfetto a Mystic River, da Million Dollar Baby fino al penultimo - incantevole - Changeling, ma anche da Gunny a La recluta.
C'è molto dei suoi personaggi migliori anche in questo Walt Kowalski, riecheggia dirty Harry Callahan, così come ritornano gli sguardi grugnanti di William Munny: la differenza sta nello spazio che - fra le rughe - Kowalski lascia al dubbio di un sorriso e a una scelta di campo non violenta, seppur costosissima.
Scritto da Nick Schenk (non certo un abituè del grande schermo), Gran Torino si regge su un intreccio esile ed elementare, che permette a Eastwood di giganteggiare alla regia, misurandola con un bilancino di precisione, sfrondandola alla base di qualsiasi fronzolo o arabesco, ma unendo tutti i puntini con delle piccole rette, fino a regalare un arazzo finale di spettacolare solidità (e qua la pianto con le metafore).
Gran Torino è - soprattutto - un film superbo.
Lo zio Clint dispensa cinema come Stockton dispensava assist e il fatto che continui a farlo sempre meglio alla soglia degli ottant'anni è un qualcosa che regala fiducia, che fa star bene.
Watchmen: who watches Zack?

Watchmen non m'è piaciuto per un motivo molto semplice: Snyder è un pappagallo. O un merlo.
Anzi, è un bimbo che si veste da adulto e passeggia per la stanza imitando gestualità e posture dei suoi genitori.
Anzi, è una scimmia allo specchio.
Troppa mimesi, niente cuore e nessuno sguardo personale: ok, t'è piaciuto Watchmen (e grazie al cazzo, direi) e vuoi fare il tuo tributo, ma ci sono cover band dei Pooh che hanno più personalità , tanto da risultare credibili e ascoltabili.
Troppi rallenty nelle matrixiane scene d'azione (quando si muove Silk Spectre sembra uno spot L'Oréal), che denotano più che inventiva, scarsa propensione al saper raccontare visivamente.
E' la seconda volta, dopo 300, che per il cattivo/antagonista il buon Zack ricorre a una caratterizzazione che punta sulla tensione omoerotica (dall'esuberanza sersiana al ciuffetto emo di Ozymandias).
La colonna sonora è tanto didascalica da risultare imbarazzante: ok, sono dei gran pezzi, ma diamine... in una fiction di Rai Uno si osa di più.
I personaggi (gli attori scelti) sono tutti bellini bellini, pulitini, ottimi per le copertine patinate (esattamente come gli spartani di 300).
Per non parlare della smania di omaggiare i modelli alti, riuscendo solo a rimediare delle sberle boomerang: dalla Cavalcata delle Valchirie di Apocalypse Now a Il Dottor Stranamore, Zack inciampa ancora (sempre dopo 300) nell'umorismo involontario.
Tutto questo, senza stare a lamentarsi troppo di come Snyder comprima la stratificata carica polisemica dell'opera di partenza, tanto da fare delle scelte riguardo cosa tenere e cosa sacrificare e - più per necessità che per reale capacità di guardare oltre - taglia tutto ciò che lo porterebbe a mantenere il finale originario e ne crea uno nuovo. Perdendo anche qui nel confronto (là si aprivano finestre su nuovi significati e nuovi mondi, qui si spiega, si rintuzza, si rassicura bonellianamente).
Però ha avuto un'ottima intuizione per i titoli di testa.
Dopo quelli, potete tranquillamente uscire dalla sala.
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"Perchè scrivo? Per paura. Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me. O anche solo per essere protetto da una storia, per scivolare in una storia e non essere più riconoscibile, controllabile, ricattabile."
Fabrizio De Andrè
"Non mi piace l'autocommiserazione dell'artista, la sua bramosia di suscitare pena e simpatia raccontando quanto sia dura fare l'artista. E' forse più duro che lavorare in una miniera in Bolivia? Perché parlare sempre di sciocchezze, quando si dovrebbe ringraziare il signore per averti dato un lavoro piacevole? Certo che è difficile produrre parole in eterno, ma è molto più facile che produrre sudore su questa terra. Quando sento un artista lamentarsi mi vien da aprire il cassetto ed estrarre il mio revolver. Il grande problema di tutti noi è che consideriamo l'arte più di quello che effettivamente è. La eleviamo ad altezze che non le competono, a giochi ridicoli: l'arte di parlare dell'arte. Dovremmo limitarci a produrre lavoro e lasciare che siano l'applauso e l'amore della gente i migliori e unici giudici. Tutto il resto sono autocommiserazione, vanità danzante, egocentrismo, preoccupazioni inutili. L'arte non è religione, a certe altezze accusa capogiro."
Leonard Cohen
"C'era una volta... e poi un giorno... e poi quando tutto sembrava andare per il meglio... e poi all'ultimo minuto... e vissero felici e contenti (ma anche no)."
David Mamet
Su questo cranio di scimmia. Su questo corpo di cane. Su questo modo di fare.
Zibba
Fabrizio De Andrè
"Non mi piace l'autocommiserazione dell'artista, la sua bramosia di suscitare pena e simpatia raccontando quanto sia dura fare l'artista. E' forse più duro che lavorare in una miniera in Bolivia? Perché parlare sempre di sciocchezze, quando si dovrebbe ringraziare il signore per averti dato un lavoro piacevole? Certo che è difficile produrre parole in eterno, ma è molto più facile che produrre sudore su questa terra. Quando sento un artista lamentarsi mi vien da aprire il cassetto ed estrarre il mio revolver. Il grande problema di tutti noi è che consideriamo l'arte più di quello che effettivamente è. La eleviamo ad altezze che non le competono, a giochi ridicoli: l'arte di parlare dell'arte. Dovremmo limitarci a produrre lavoro e lasciare che siano l'applauso e l'amore della gente i migliori e unici giudici. Tutto il resto sono autocommiserazione, vanità danzante, egocentrismo, preoccupazioni inutili. L'arte non è religione, a certe altezze accusa capogiro."
Leonard Cohen
"C'era una volta... e poi un giorno... e poi quando tutto sembrava andare per il meglio... e poi all'ultimo minuto... e vissero felici e contenti (ma anche no)."
David Mamet
Su questo cranio di scimmia. Su questo corpo di cane. Su questo modo di fare.
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